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Processo civile. Il tabù della "terzietà del giudice"

MessaggioInviato: 21/08/2014, 11:36
da vincenzo vanda
L’ennesima riforma del processo civile finalmente sembra essere quella che occorre; o, almeno, quella che io ritengo occorra e propongo da molti anni; nel 2001 col il suggerimento, dettagliato e articolato, inviato con la nota “Attuale processo civile di 1° grado. Disfunzioni e ipotesi di modifiche” alle autorità politiche amministrative e della magistratura, e ancora nel 2011 con la nota “Processo civile. Modifiche”.
Torno ora sull’argomento perché da quanto apprendo dalla stampa sembra che finalmente stiano maturando le condizioni per l’abbandono di quel tabù contro il quale combatto da tempo.
Il tabù consiste in un errato e dannoso modo di intendere la cosiddetta “terzietà del giudice”. Infatti, se è dovuto ed evidente che il giudice non debba parteggiare per alcuna delle parti in lite è invece errato e inopportuno intendere in termini processuali tale terzietà nel senso che il giudice debba consentire alle difese delle parti di determinare liberamente i contenuti sostanziali e processuali, limitando il proprio intervento al rispetto puramente formale del rito e senza mai, a pena di possibile ricusazione, esplicitare valutazioni sulla bontà delle difese e/o prognosi sull’esito del giudizio.
Così erroneamente intesa, la terzietà comporta che il giudice solo dopo le conclusioni finali delle parti, quando dovrà emettere la sentenza, prenderà piena conoscenza del contenuto sostanziale e processuale del processo, e finalmente giudicherà.
Ma quel contenuto processuale, accumulato con l’atteggiamento sostanzialmente indifferente e passivo del giudice, avrà comportato, il più delle volte: 1) ammissione ed espletamento di attività istruttorie irrilevanti, con conseguente non dovuto prolungamento dei tempi del processo; 2) il tentativo di conciliazione sarà stato addirittura omesso oppure si sarà risolto in una formale inutile perdita di tempo, in difetto di qualsiasi novità o valutazione che possano indurre le parti a modificare le rispettive pretese e conciliare; 3) la sentenza spesso avrà solo contenuto processuale e dunque lascerà insoddisfatta la domanda di giustizia sostanziale, pur sussistendo nella fase istruttoria la possibilità di eliminare la causa di quella limitazione o di andare subito alla decisione senza assunzione di mezzi istruttori destinati all’irrilevanza; 4) motivazioni, in sentenza, complesse su aspetti non dibattuti in fase istruttoria, causa di molti appelli che potrebbero essere evitati.
Queste ed altre sono le conseguenze negative che, a causa dell’erroneo tabù sulla terzietà del giudice, si ripercuotono sul processo civile e lo squalificano sotto molteplici aspetti, principalmente in ordine alla sua durata e alla qualità del sevizio giustizia.
Conseguenze che possono evitarsi se il tentativo di conciliazione assume l’importanza e l’efficacia dovute e, a questo fine: 1) la causa sin dall’inizio sia ben determinata nelle domande, sostanziali e istruttorie delle parti; 2) il giudice ne prenda subito piena conoscenza e con un suo primo intervento - autoritativo ma, occorrendo, anche di “consulenza” - rilevi eventuali vizi radicali che consentano di evitare inutili attività istruttorie e disponga di andare alla decisione; oppure, se sanabili, rilevi carenze o difetti che possano determinare uno svolgimento processuale non correttamente orientato a rispondere, in modo esaustivo e giusto, alla sostanziale domanda di giustizia sollevata dalle parti; 3) all’esito di tale primo intervento del giudice le parti decidano liberamente la formulazione definitiva delle loro richieste sostanziali e istruttorie; 4) il giudice, sulla base di queste, svolga il tentativo di conciliazione manifestando la prognosi a suo avviso possibile in ordine alla decisione e in ragione di ciò suggerisca una soluzione conciliativa che può andare dall’abbandono della domanda all’accordo sulla base di reciproche concessioni; 5) sicuramente moltissime cause si chiuderanno con rinunce radicali o parziali e accordi conciliativi; 6) i processi che andranno avanti avranno il vantaggio di assicurare che la sentenza arriverà all’esito di un’attività istruttoria essenziale e funzionale e di un valido dibattito in diritto e pertanto essa sia il più possibile qualificata da contenuto esaustivo della domanda sostanziale di giustizia e da decisioni corrette e motivate, che, tra l’altro, difficilmente daranno adito ad appello.
Questo è, a mio avviso, il processo civile che può essere rapido e giusto, rispondente ad un servizio giustizia qualificato, capace pertanto di rimuovere le fondate lamentele attuali mosse dai cittadini e dalle imprese e la riluttanza del capitale straniero di investire in Italia.
Questo è il processo civile che suggerisco da tempo e che ora, nei termini più dettagliati e articolati previsti nei miei scritti del 2001 e 2011, ho inviato, con mia lettera spedita il 24 aprile scorso, al dott. Giuseppe Maria Berruti, presidente della III sez civ. della Cassazione e direttore del massimario della Cassazione. A ciò mi ha indotto l’intervista dal dott. Berruti rilasciata alla giornalista Liana Milella e pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 22 aprile, nella quale egli, designato a presiedere la commissione istituita dal Ministro Orlando per la riforma del processo civile, ha prospettato “un processo gestito di più dal giudice, capace di togliere dall’istruttoria il troppo e il vano, di decidere in modo autoritativo quando la causa deve essere chiusa”. Affermazioni che mi hanno fatto sperare che finalmente sia maturata la consapevolezza della necessità di far cadere il tabù della errata concezione della “terzietà” del giudice.
Non ho avuto riscontri diretti dal dott. Berruti, ma, con mia grande soddisfazione, ho appreso dall’articolo pubblicato il 15 agosto scorso sul detto quotidiano che il Ministro Orlando ha sostenuto la necessità che il processo “dovrà contenere in modo definitivo le possibili posizioni delle parti” e il dott. Berruti ha affermato che la proposta di soluzione che il giudice formulerà dovrà essere “formale e specifica” e che “questo vuol dire che le parti devono dire tutto e subito, e che il giudice individua allo stato degli atti una soluzione che si basa su una prognosi”.
Ecco, finalmente si sostiene l’esigenza che il giudice già in sede istruttoria abbia piena conoscenza delle deduzioni delle parti, che lo stesso formuli una prognosi e che questa rilevi, quindi sia manifestata, nella proposta di soluzione nel tentativo di conciliazione.
Non oso sostenere che quanto da me rimesso al dott. Berruti abbia avuto qualche rilevanza, ma mi ritengo autorizzato ad un atto di orgoglio e soddisfazione per avere sostenuto da anni quanto adesso sembra affermarsi e, come cittadino, mi auguro che effettivamente la riforma che sarà decisa con decreto del prossimo 29 agosto risponda finalmente in pieno, senza indebolimenti della innovazione imposti dagli immancabili conservatori, a quanto occorre per salvare la giustizia civile italiana.