Bombe si bombe no

Moderatore: vincenzo vanda

Bombe si bombe no

Messaggioda vincenzo vanda » 29/04/2011, 21:09

La decisione di Berlusconi di intervenire, anche noi, con i bombardamenti contro l’esercito di Gheddafi ha scatenato la Lega e tutti i pacifisti, che già avevano qualificato come guerra gli interventi armati e dichiarato che non esistono guerre giuste.
Prescindendo dagli aspetti politici della decisione e dalla correttezza del comportamento tenuto nell’occasione da Berlusconi, è opportuno esaminare se effettivamente sia legittimo definire guerra l’intervento armato contro un dittatore che uccide con le armi i suoi cittadini che manifestano chiedendo democrazia, libertà e giustizia sociale. Esiste infatti il concetto del braccio armato della giustizia, nel senso che la giustizia ha bisogno, in determinate situazioni, di usare la forza e la violenza per realizzarsi. Situazioni quali la chiusura in carcere di un responsabile di reati, le manganellate della forza pubblica contro manifestanti violenti, l’intervento armato contro terroristi o persone che stiano comunque minacciando di morte degli innocenti, sono situazioni che definiremmo di guerra? Certamente no: sono situazioni nelle quali lo Stato per il mantenimento dell’ordine pubblico, della sicurezza e della giustizia è costretto ad usare la forza, il suo braccio armato, a mezzo della sua “forza pubblica”, nell’interesse della collettività. E certamente sono interventi che non vengono considerati di guerra, né sono biasimati, anzi, l’inadeguato o tardivo intervento diventa motivo di critica verso i responsabili pubblici.
Anche in situazioni di minacce, aggressioni e violenze gravi contro persone indifese, che avvengano in condizioni di urgenza e di assenza di forza pubblica, si ritiene legittimo e doveroso l’intervento, immediato e con la forza necessaria, da parte delle persone presenti per impedire che l’aggressore compia o continui a compiere la sua ingiusta azione violenta. Infatti pubblicamente viene biasimato, come immorale, codardo e privo di solidarietà sociale il comportamento di quanti, pur assistendo all’episodio, abbiano evitato di intervenire. Si pensi, poi, alla legittima difesa, che può giustificare persino l’omicidio, quale massima espressione di violenza privata giustificata, quando è la vita della persona ad essere ingiustamente minacciata.
Nel caso della Libia la comunità internazionale si è trovata davanti ad una situazione di aggressione ingiusta e violenta contro persone inermi, in condizioni di urgenza e di mancanza di un organo sovranazionale munito di propria determinazione e propria “forza pubblica”. Infatti: il dittatore, munito di armi micidiali, ha reagito contro i propri cittadini, che inizialmente protestavano con grida e manifesti, usando le armi e uccidendoli; ha persistito nell’azione nonostante la disapprovazione internazionale, i tentativi diplomatici e le sanzioni di natura economica; la violazione del diritto alla vita dei manifestanti richiedeva un intervento impeditivo urgente e adeguato; l’inadeguatezza dell’O.N.U., che non dispone né di una volontà propria, autonoma da quella dei singoli Stati e per essi obbligatoria, né di propria “forza pubblica” (infatti le decisioni vengono prese da rappresentanti degli Stati e alcuni hanno addirittura, ancora, diritto di veto; né esiste un esercito dell’O.N.U.), ha comportato una decisione di tale organo tardiva, di compromesso e pertanto di significato e di estensione incerti e discutibili, affidata per l’esecuzione alle interpretazioni e alle disponibilità, di volontà collaborativa e di “forze”, dei singoli Stati.
Questa situazione, di conseguenza, ha comportato diversificazione nelle decisioni e nell’azione (Francia e Inghilterra all’attacco, la Germania disimpegnata, altri Stati, come l’Italia, in vigile incertezza, gli U.S.A. lottati tra la coerenza con la posizione di gendarme della giustizia internazionale finora sostenuta e l’esigenza ormai subentrata, di natura economica e politica sia interna che internazionale, di “strategia di disimpegno”).
In tali contesti si sono verificati effetti negativi che avrebbero dovuto essere evitati: l’azione del dittatore violento non è stata bloccata con la determinazione e l’immediatezza richieste, sicchè i contestatori si sono armati, pur rimanendo in condizioni di netta inferiorità, e la lotta ha assunto la configurazione di una guerra, che ha comportato tanti morti, dall’una e dall’altra parte.
E se tanta distruzione di vite era quello che si doveva evitare, viene da concludere che le alternative migliori per la comunità internazionale sarebbero state o di non intervenire (girare la testa e far finta di non vedere) favorendo una vittoria rapida del dittatore, con pochi morti, oppure intervenire subito con la forza dovuta, determinando una sconfitta rapida del dittatore, con pochi morti.
In conclusione, la comunità internazionale non poteva stare a guardare ed era tenuta a intervenire, a tutela della vita dei manifestanti, in modo rapido ed efficace. La mancanza di una struttura sovranazionale capace di dare questa risposta, ha consentito lo scatenarsi degli individualismi dei singoli Stati e ciò ha comportato ritardo e inadeguato intervento. Ne è conseguito distruzione e morte, in quantità che avrebbe potuto e dovuto essere evitata; dunque imputabile anche ai comportamenti della collettività internazionale.
Nella situazione alla quale si è pervenuti, la decisione di intervenire con bombardamenti il più possibile mirati per far cessare la resistenza del dittatore e lo stillicidio di morti è coerente col compito che la comunità internazionale aveva ed è un impegno ancor più dovuto, data la responsabilità di quanto è derivato da incertezze e divaricazioni intervenute per opportunismi e calcoli di interessi propri da parte degli Stati chiamati alla solidarietà verso le vittime della ingiusta violenza del dittatore.
Parlare di guerra, di guerre ingiuste, invocare il bene della pace, consigliare di lasciare la soluzione alla diplomazia, attribuire l’intervento a mire di privilegi economici, evidenziare l’inopportunità dell’impegno economico conseguente, sono tutte considerazioni e affermazioni di facile presa, dovute forse alla ricerca di facile consenso, emotivo piuttosto che ragionato, o dettate da meri calcoli economici, certamente fuori luogo; infatti la consistenza effettiva della situazione che si è presentata alla collettività internazionale richiedeva l’intervento armato, proprio in nome della inviolabilità del diritto alla vita, della giustizia, del ripudio delle violenze e delle guerre di conquista, in nome della ricerca della pace e della solidarietà capace di superare il criterio delle convenienze personali.
Bisogna prendere chiara coscienza di ciò, essere onesti, non consentire facili confusioni emotive, accettare di essere tenuti agli interventi richiesti dai doveri morali e di solidarietà, anche se comportano l’uso della forza e sacrifici economici; inoltre, bisogna attivarsi a tutti i livelli perché in nome della interdipendenza e della globalizzazione si trasformi l’O.N.U. in un organismo sovranazionale, munito di volontà e forza proprie, che intervenga in situazioni quali quella della Libia con la tempestività e l’efficacia richieste; e augurarsi che nell’attesa che maturino i tempi di un pianeta più giusto e meglio organizzato intanto i singoli Stati vengano guidati da persone più orientate ad assicurare il bene individuale nell’ambito del bene e della giustizia sociale globali.
vincenzo vanda
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